Padre Marrazzo e Padre Palma

Carissimo, t'informo che in occasione della festa di Sant'Annibale l'enciclopedia SANTI E BEATI ha pubblicato il profilo dei Padri Marrazzo e Palma.

www.santiebeati.it/dettaglio/97336 (Marrazzo)
www.santiebeati.it/dettaglio/97337 (Palma). 
Auguri per la festa di Sant'Annibale.

Memento.

P. A

Servo di Dio Giuseppe Marrazzo Sacerdote rogazionista

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San Vito dei Normanni, Brindisi, 5 maggio 1917 – Messina, 30 novembre 1992

Giuseppe Marrazzo, nativo di San Vito dei Normanni, fu indirizzato dall’arciprete del suo paese alla Scuola Apostolica dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, ad Oria (Br), dove entrò il 20 ottobre 1930. Ammesso al noviziato nel 1934, si consacrò definitivamente a Signore nel 1940 e fu ordinato sacerdote tre anni dopo. Fu inizialmente assegnato al Santuario di Sant’Antonio a Messina, annesso alla casa madre dei Rogazionisti, e nel 1956 i superiori lo trasferirono a Padova, dove rimase per un anno. Rientrato a Messina, vi trascorse circa quarant’anni, interrotti da un biennio trascorso a Zagarolo (Roma) come parroco, impegnandosi specialmente nella confessione, nella cura degli infermi e nella direzione spirituale. Il 30 novembre 1992 morì improvvisamente a Messina dove è viva la sua fama di santità. La fase diocesana del suo processo di beatificazione si è svolta dal 2008 al 2015 nella diocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela. Dal 2014 i suoi resti mortali riposano nel Santuario di Sant’Antonio a Messina, nella stessa tomba che aveva ospitato le spoglie del fondatore dei Rogazionisti, Sant’Annibale Maria Di Francia.

 

 
 

 

L’infanzia
Giuseppe Marrazzo nacque a San Vito dei Normanni (Br) il 5 maggio 1917, una settimana prima dell’apparizione della Vergine Maria a Fatima. Era il sesto dei nove figli nati da Luigi, contadino, e Maria Concetta Parisi, che badava alla casa e alla numerosa famiglia. Fu battezzato il giorno dopo la nascita nella parrocchia di San Domenico.
Negli anni delle elementari, Peppino, come lo chiamava la mamma, provava scarso interesse per lo studio: preferiva andare nei campi ad aiutare il padre e i fratelli pensando di seguire le loro orme. Il Signore, però, aveva altri progetti su di lui.
Peppino sentiva una forte attrazione verso l’Eucaristia e quando poteva si recava in chiesa a fare compagnia a Gesù. Il 7 giugno 1925 si accostò per la prima volta all’Eucaristia e tre anni dopo, il 2 giugno 1928, gli fu conferito il sacramento della Cresima.

La vocazione
La sua religiosità semplice e genuina, unita a un carattere docile, non passò inosservata a monsignor Francesco Passante, Arciprete di San Vito dei Normanni, molto attento ai segni di vocazione presenti nei ragazzi della parrocchia. Fu mamma Maria Concetta che un giorno chiese al figlio: «Peppino, vuoi farti sacerdote?». «Sì», fu la risposta pronta e decisa.
I genitori ne parlarono all’Arciprete, cugino materno, il quale indirizzò Peppino alla Scuola Apostolica dei Rogazionisti del Cuore di Gesù ad Oria (Br) dove aveva instradato altri ragazzi. Ad Oria i Rogazionisti, fondati a Messina da Sant’ Annibale Maria Di Francia per obbedire al comando scaturito dal Cuore di Gesù: «Pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,36-38), oltre alla Scuola Apostolica avevano un orfanotrofio con scuola di arti e mestieri per avviare i ragazzi al lavoro.
Così, ormai tredicenne, il 20 ottobre 1930 Peppino entrò nella Scuola Apostolica. Il Fondatore dei Rogazionisti era morto da appena tre anni, ma il suo ricordo era ancora vivissimo. Più di una volta Peppino visitò la stanza usata da Sant’Annibale nei suoi soggiorni ad Oria e ne assimilò gli insegnamenti.

Una lotta contro la passione predominante
Il 29 settembre 1934 Giuseppe iniziò il noviziato insieme ad altri undici compagni. Si affidò con docilità alla guida del Padre maestro, Domenico Santoro. Col suo aiuto comprese che per farsi santo bisognava individuare e vincere la passione predominante. Nel caso di fratello Giuseppe, si trattava dell’egoismo unito all’invidia. Con l’aiuto del Maestro comprese bene quali fossero gli strumenti per debellarlo: «Mi devo mostrare affabile con tutti, chiedere un cuore tenero a Gesù e Maria, abbondare negli atti di carità, essere famigliare. Penserò che le anime dei confratelli sono anime redente dal sangue di Gesù. Sono anime consacrate a Dio. Devo pregare per la loro santificazione e così, con la grazia del Signore, vincerò la passione predominante».

La professione religiosa
Dopo diciotto mesi di noviziato, fratello Giuseppe emise la prima professione religiosa il 29 marzo 1936. Rinnovò annualmente i voti fino al 24 settembre 1940, quando si consacrò definitivamente al Signore nella famiglia religiosa dei Rogazionisti.
Prima d’iniziare gli studi teologici il giovane religioso fece il “magistero” che consisteva nell’interrompere gli studi per dedicarsi all’educazione e assistenza degli orfanelli. Fu assegnato alla Casa Madre di Messina, attigua al Santuario di Sant’Antonio di Padova, voluto da Padre Annibale Maria Di Francia e costruito grazie alle offerte dei numerosi devoti e benefattori antoniani.

Educatore
Peppino giunse a Messina il 14 agosto 1938. Subito si dedicò senza sosta agli orfanelli, senza trascurare la preghiera. Ogni sera, dopo le preghiere comunitarie, ottenuta l’autorizzazione del superiore, sostava a lungo in cappella per affidare al Signore i suoi orfanelli e impetrare dalla Mamma celeste un maggiore amore verso di loro per portarli ad amare Gesù.
Nella sua inesperienza a volte alzava la voce per ottenere ordine e impegno; ben presto si rese conto che in quel modo, senza l’ amore verso i ragazzi, non si conseguiva lo scopo dell’educazione. Nel suo diario annotò: «Riguardo al trattamento dei ragazzi, vedo che castigan-doli non posso ottenere mai che mi amino e che obbediscano per amore e non per timore».

Studente di Teologia
Fra Peppino iniziò i corsi teologici il 9 ottobre 1939 presso il Seminario diocesano di Messina. Successivamente, a causa della guerra, i superiori decisero, con grande gioia degli studenti, d’iniziare la scuola teologica interna. Così a partire dal 4 novembre 1941 poté studiare accanto al santuario di Sant’Antonio, luogo del suo futuro apostolato. La difficoltà che incontrava nello studio era compensata dall’intensa determinazione a compiere la volontà di Dio, convinto che anche la fatica dello studio può essere preghiera.

Sacerdote
Sette Rogazionisti, incluso fratello Giuseppe, furono ordinati diaconi il 2 maggio 1943, Domenica in Albis, nella chiesa madre di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), dove il Seminario maggiore era sfollato a causa della guerra. Per lo stesso motivo, l’ordinazione sacerdotale venne anticipata per tutti e sette: il 9 maggio 1943, appena una settimana dopo. Padre Giuseppe celebrò la Prima Messa l’indomani, nel santuario della Madonna della Neve a Santa Lucia del Mela, era presente la comunità Rogazionista di Messina, sfollata lì a causa dei bombardamenti sulla città di Messina.
Nel 1949 ricevette l’incarico di addetto al santuario di Sant’Antonio, e successivamente fu nominato direttore spirituale dei ragazzi della Scuola Apostolica. La sua dedizione al ministero della confessione attirò l’attenzione di Padre Angelico d’Alessandria ofm, visitatore apostolico dei Rogazionisti, il quale un giorno gli disse: «Voi sarete apostolo del confessionale!». Fu profeta!

A Padova
Padre Giuseppe gioì intimamente nell’ascoltare Padre Angelico perché era suo desiderio dedicarsi alla confessione. Tuttavia, nel 1956, i superiori lo trasferirono nella casa di Padova, con l’ufficio di direttore spirituale dei seminaristi rogazionisti e animatore vocazionale.
Obbedì prontamente, ma si sentì come sradicato da un ambiente tanto promettente. Scrisse allora un biglietto che depose sulla tomba del Fondatore, nel santuario di Sant’Antonio: «Amato Padre, esaudisci il desiderio del mio cuore: fammi tornare presto a Messina, qui in questa tua chiesa, che è un’anticamera del Paradiso. Ho fiducia che la mia assenza sarà solo di pochi mesi. Padre, esaudiscimi presto».

Come modello, san Leopoldo Mandić
Nella città veneta conobbe meglio la figura di Padre Leopoldo da Castelnuovo ofm, al secolo Bogdan Ivan Mandić, vissuto e morto a Padova in concetto di santità (1866-1942), e gli divenne molto devoto. 
Nel 1952, a dieci anni dalla morte di lui, gli si rivolse invocandolo come santo (all’epoca era Servo di Dio; sarebbe stato canonizzato nel 1983): «O San Leopoldo da Castelnuovo, voi che confessaste per circa 40 anni in Padova, ottenetemi che Messina diventi una seconda Padova per me. Che io diventi tanto santo, morto a me stesso e che faccia diventare il nostro Santuario un giardino profumato di virtù e di santi. Fatemi incontrare un buon padre spirituale e che io diventi il padre di tutti, che tutti quelli che si avvicinano a me siano presi dall’amore di Gesù, come il ferro dalla calamita».

Di nuovo a Messina
L’anno successivo i superiori lo trasferirono ancora a Messina. Poté quindi riprendere con gioia il suo ministero, dedicandosi alle confessioni senza limiti d’orario. A qualche confratello che considerava esagerata la sua dedizione e lo richiamava perché rispettasse l’orario delle confessioni, rispondeva con semplicità disarmante: «Non voglio avere la responsabilità che qualche penitente muoia senza essersi confessato perché non mi ha trovato». 
Al suo confessionale s’inginocchiavano fedeli di ogni stato di vita e condizione sociale; per tutti aveva una parola d’incoraggiamento. Era conosciuto come uomo di pace e pacificatore, per questo quando in famiglia insorgevano conflitti o difficoltà si chiamava Padre Marrazzo; ha risanato unioni coniugali pericolanti dissuadendo e confortando persone disposte all’omicidio e al suicidio. Da vero figlio di Padre Annibale non dimenticò i poveri ai quali, con l’autorizzazione dei superiori, donava quanto poteva, invitando i giovani ad evitare l’accattonaggio e ad essere intraprendenti e laboriosi.

Sempre a disposizione
Per gli ammalati, poi, aveva un occhio di riguardo. La sera, prima di coricarsi, avvisava il sacrista di svegliarlo in qualsiasi momento della notte qualora lo avessero chiamato per amministrare i sacramenti della confessione e dell’unzione degli infermi. Il sacrista attesta di averlo accompagnato più di una volta a casa di ammalati gravi nel corso della notte. Per questo, la gente lo definiva «Il 118 degli ammalati», mentre monsignor Francesco Fasola, arcivescovo di Messina (anche per lui è in corso il processo di beatificazione), ebbe a dichiarare che «Il Santuario di Sant’Antonio è la clinica spirituale di Messina, della quale Padre Marrazzo è il medico di guardia». Lui, invece, si autodefiniva in questi termini: «Mi sento come un taxi che deve portare le anime a Gesù. Sono il “taxista” delle anime. Senza di esse sarebbe inutile la mia vita». Salvo il biennio 1972-’74, quando fu vice-superiore della casa di Zagarolo, Padre Giuseppe non lasciò mai la casa di Messina.

Sempre con la caramella e la chitarra
Per iniziare a comunicare con qualcuno, don Peppino estraeva dalle tasche una caramella e la dava al suo interlocutore, spesso accompagnandola con l’invito: «Fatti santo!». Altre volte la porgeva senza dire nulla, ma elargendo un sorriso pieno di cordialità. La chitarra, che aveva appreso a suonare da adulto, era l’altra inseparabile compagna: con essa tirava su di morale gli ammalati che visitava e animava le ricreazioni e le serate con i confratelli. Nel suo diario scrisse a riguardo: «Nulla è sprecato nella giornata del sacerdote, anche suonare la chitarra, perché faccio tutto per Dio. Quasi sempre porto con me la chitarra, come mezzo di apostolato e veramente mi aiuta, posso avvicinare le persone, confortare gli anziani, tenere allegri i sacerdoti infermi che si trovano nella casa di cura».

La devozione mariana e la maternità sacerdotale
Era convinto che la sua capacità d’indirizzare le persone fosse dovuta all’intercessione della Vergine Maria, che invocava come Madre del Buon Consiglio sin dagli anni della Scuola Apostolica ad Oria. Gradualmente prese coscienza del fatto che anche a lui, come al discepolo amato, Gesù sulla Croce aveva affidato sua Madre. Certo di non dover fare altro che seguirne le indicazioni, si affidava a Lei con queste parole: «Mamma mi sforzerò di essere sacerdote come vuoi tu, perché ritengo i tuoi consigli tutti ispirati da Gesù». Dall’esperienza radicata nell’amore di mamma Concetta e maturata nel dialogo con una figlia spirituale che aveva il cuore sacerdotale, don Peppino comprese che ogni donna che imita Maria, madre di Gesù sacerdote,  può essere mamma sacerdotale. Alle figlie spirituali, che considerava sorelle e madri, soleva dire: «Se volete aiutare e amare i sacerdoti, amate Gesù perché noi sacerdoti siamo “in Lui”». Come Maria, la mamma sacerdotale «deve stare un passo indietro per non distogliere il “figlio” dal dedicarsi alla cose del Padre». Padre Giuseppe guidò molte donne, madri di famiglia o nubili, lungo la strada della maternità sacerdotale che coincide con la strada della santità.

La morte
Negli ultimi mesi del 1992, Padre Giuseppe si sentiva particolarmente stanco. Per questo motivo, la prima Domenica d’Avvento, che quell’anno cadeva il 29 novembre, annullò la visita ai malati dell’ospizio di Collereale, concentrandosi sulle confessioni e sulla celebrazione dell’Eucaristia.
Nell’omelia, commentando il passo del Vangelo che parla della venuta improvvisa del Signore, affermò: «Anch’io ho paura della morte improvvisa, ma mi affido alla misericordia del Signore». In seguito quelle parole parvero a molti una sorta di presagio.
La sera, dopo aver mangiato qualcosa, Padre Giuseppe andò subito a letto, accusando di nuovo la stanchezza. Il mattino seguente, lunedì 30 novembre, il sacrista non lo trovò in chiesa, come avveniva di solito. Aspettò qualche istante, poi andò a bussare alla sua porta, senza ricevere risposta.
Chiamò dunque il direttore della comunità, Padre Michele Ferrara, per avvisarlo di quell’insolita assenza. Infine fu forzata la porta: Padre Giuseppe era a letto, sembrava dormire serenamente, ma il suo cuore non batteva più. Il medico di casa non poté fare altro che constatare il decesso per arresto cardiaco. Aveva 75 anni, di cui 56 di professione religiosa e 49 di sacerdozio. La notizia si diffuse immediatamente in città, La voce del popolo, si sa, talvolta è anche profetica: «È morto un santo!». Si sentiva dire. Non pochi fedeli, visitando la salma, hanno preferito rendere lode a Dio con un Gloria Patri piuttosto che recitare un Requiem.

Il processo di beatificazione
La fama di santità di cui don Peppino godeva quand’era in vita non l’abbandonò da morto diffondendosi anche fuori d’Italia. Molti dei suoi penitenti attestano di aver preso la giusta strada e di aver ricevuto da lui consigli preziosi per la propria esistenza. A fronte delle numerose segnalazioni di grazie e della persistente fama di santità, i Rogazionisti hanno chiesto all’Arcivescovo di Messina di aprire il processo di canonizzazione. Ottenuto il nulla osta da parte della Santa Sede, il 5 maggio 2008 è iniziata l’inchiesta diocesana conclusasi il 9 maggio 2015. Il 14 settembre 2016 la Congregazione per le Cause dei Santi ha emanato il decreto di validità giuridica. Attualmente si attende il decreto sull’eroicità delle virtù. 
Il 9 maggio 2014, i resti mortali di Padre Giuseppe Marrazzo sono stati traslati nel Santuario di Sant’Antonio e deposti nello stesso sepolcro dove, per oltre sessant’anni, erano state collocate le spoglie di Sant’Annibale Maria Di Francia.

Autore: Emilia Flocchini

 

Padre Pantaleone Palma Sacerdote rogazionista

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Ceglie Messapica, Brindisi, 15 aprile 1875 – Roma, 2 settembre 1935

 

Pantaleone Palma, nato a Ceglie Messapica in una famiglia benestante, fu ordinato sacerdote nel 1899. Incaricato dell’insegnamento nel seminario di Oria (Brindisi), chiese di approfondire la sua formazione culturale alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Messina. I suoi progetti cambiarono quando conobbe il canonico Annibale Maria Di Francia (canonizzato nel 2004) e la sua opera a favore degli orfani e dei poveri, espressa nelle congregazioni delle Figlie del Divino Zelo e dei Rogazionisti del Cuore di Gesù. Chiesa al suo Vescovo ed ottenne di entrare tra i Rogazionisti, divenendo il primo e principale collaboratore del Santo fondatore. Si rivelò essere un uomo geniale e intraprendente. Fondò e organizzo le segreterie Antoniane per diffondere la devozione del pane di Sant’Antonio di Padova e con le offerte dei devoti antoniani costruì una decina di Istituti con annesse officine per avviare gli orfani, detti artigianelli, al lavoro. Sant’Annibale – che ben conosceva e stimava P. Pantaleone - prima di morire (1 Giugno 1917) lo nominò erede universale. Questa scelta accrebbe in alcuni l’invidia e la gelosia nei suoi confronti creando un clima di sospetto. In seguito ad accuse infondate, fu deferito al sant’Uffizio e condannato nonostante la ritrattazioni degli accusatori: nel 1933, in seguito alla condanna, fu estromesso dalla Congregazione, sospeso dall’esercizio dei sacramenti e confinato alla Scala Santa (Roma) presso il convento dei Passionisti i quali lo considerarono santo in vita e dopo la morte. Padre Pantaleone si offrì come vittima per il bene della famiglia rogazionista, confidando unicamente in Dio, dichiarandosi sempre innocente, chiedendo la revisione del processo e la riabilitazione alla celebrazione della santa Messa. Il 6 agosto 1935 papa Pio XI gli concesse di tornare a celebrare la Messa, ma poco dopo, il 2 settembre 1935, padre Pantaleone morì improvvisamente. I suoi resti mortali, inizialmente sepolti presso il cimitero del Verano a Roma, sono stati traslati nel Santuario di Sant’Antonio di Padova a Oria (Br) il 12 settembre 2013, occasione nella quale il Vescovo di Oria, monsignor Vincenzo Pisanello, ha chiesto di presentare al Padre Generale dei Rogazionisti la formale richiesta per l’avvio del suo processo di beatificazione.

 

 

 

Può anche succedere che un prete, o per meglio dire un religioso, venga condannato dal Sant’Ufficio, dimesso dalla sua Congregazione, ridotto allo stato laicale (oggi si direbbe «dimesso dallo stato clericale», ma la sostanza non cambia…) sospeso dalla celebrazione dei sacramenti, con imposizione dell’obbligo di soggiorno (cioè, in pratica, segregato in un Convento) e oggi si parli di farlo santo. 
Può succedere, perché sul suo conto si son sbagliati, dando credito a fin troppo scontate calunnie, senza prendersi la briga di approfondire le accuse e ascoltare le sue difese: potere delle chiacchiere – direbbe Papa Francesco -  della gelosia e dell’invidia che sembrano inficiare le comunità cristiane fin dai tempi apostolici.
Pantaleone Palma nasce a Ceglie Messapica (Br) il 15 aprile 1875, in una famiglia benestante che vanta, tra gli ascendenti, sacerdoti, uomini d’ingegno e musicisti. Per intelligenza e applicazione negli studi neppure il nuovo arrivato sembra fare eccezione, tanto che riesce a conseguire la maturità classica da privatista in appena 60 giorni e 60 notti di studio ininterrotto: una bravata che gli lascia come ricordo, non proprio piacevole, un esaurimento nervoso che che lo accompagnerà tutta la vita. 
Prete nel 1899 e subito insegnante in seminario, giusto per non smentire la tradizione culturale della famiglia chiede al suo vescovo di potersi laureare in Lettere e Filosofia. Una serie di fortunate coincidenze (o non solo…) lo porta così alla prestigiosa università di Messina e, soprattutto, a entrare in contatto con il Padre Annibale Maria Di Francia che gli offre ospitalità come inquilino-studente.
Quest’ultimo ha fondato a Messina le Congregazioni delle Figlie del Divino Zelo e dei Rogazionisti del Cuore di Gesù e nella triste realtà sociale e morale del quartiere Avignone, il periferico e più misero di Messina, sta accogliendo orfani, cui insegna un mestiere, e si prende cura dei più miserabili. 
Tra i due preti scatta la scintilla della perfetta intesa e di una sorprendente affinità, che portano don Pantaleone a scegliere padre Annibale come suo confessore abituale e guida spirituale, e questi ad affidare al primo incarichi sempre più delicati e inserendolo in posti-chiave delle sue Opere, fidandosi ciecamente di lui.
È soprattutto il terremoto del 1908 che distrugge Messina a mettere in luce la carità e l’intraprendenza di don Palma, tanto da far dire al Di Francia che «meriterebbe numerose medaglie d’oro al valor civile per il coraggio dimostrato e un Paradiso sarebbe poco per l’eroica carità esercitata».
Nell’opera di ricostruzione del dopo sisma, padre Annibale trasferisce la propria Opera ad Oria (Br) ed ha la gioia di avere al suo fianco sempre don Palma, che ha abbandonato gli studi ed ha chiesto di entrare tra i Rogazionisti, facendosi mendicante per suoi orfani: è lui l’anima e il promotore del calzaturificio, della sartoria, della falegnameria, della tipografia e dell’officina meccanica in cui gli orfani imparano un lavoro e il fondatore può scrivere con l’orgoglio di un padre: «Il padre Palma è stato per noi un inviato dalla Provvidenza. Mi ha aiutato con la sua intelligenza, la ferrea volontà e le sue non comuni attitudini a saper fare…».
Malgrado la salute fragile, il prete arrivato dal brindisino non si risparmia e mai si tira indietro: «dovunque arriva, predica, confessa, tiene conferenze e riunioni, si occupa pure delle vocazioni per i nostri Istituti… sta spiegando la devozione del Pane di Sant’Antonio e sta collocando nelle varie chiese le cassette “offerte pro orfani”. Questo suo apostolato gli costa molti sacrifici…». 
È abbastanza ovvio che di un prete così ci si possa fidare ed infatti padre Di Francia (che dal 2004 la Chiesa venera come santo), morendo nel 1927, lo lascia erede universale di tutta la sua Opera e di tutti i suoi beni: segno indiscusso di stima e di riconoscenza, ma anche per lui garanzia di continuità della sua intera fondazione, perché un uomo che così generosamente ha lavorato per impiantarla e farla crescere è sicuramente in grado di farla prosperare anche dopo la morte del fondatore e di impedire che essa scompaia con lui.
Padre Palma scriverà in un momento per lui delicatissimo: «Il Fondatore è morto lasciando un documento insigne di stima e di fiducia verso la mia povera persona, nominandomi erede universale dei suoi beni e preferendomi ad ogni altro confratello della stessa Congregazione». Già: «…preferendomi ad ogni altro confratello»: è precisamente a questo punto che inizia il suo calvario.
Malumore, invidia, gelosia, sospetto sono i sentimenti suscitati dalle volontà testamentarie di Padre Annibale nei confronti del suo “delfino”, l’unica persona di sua fiducia cui affidava il futuro delle sue Congregazioni. Si sa da sempre che l’invidia è madre della calunnia e anche in questo caso non c’è eccezione.
La “macchina del fango”, azionata da pochi invidiosi confratelli e da alcune suore, subito si mette in moto, orchestrando un piano diffamatorio di chiaro stampo boccaccesco. Come succede in questi casi, si inizia infatti con l’addossargli responsabilità finanziarie e, dato che queste sono spesso insufficienti per distruggere un ministro di Dio, si prosegue con l’addebitargli infamanti accuse di comportamenti immorali.
«Penso che il trattamento paternamente affettuoso del santo Fondatore nei miei confronti sia stato uno dei più forti motivi della gelosia di cui ora sono vittima», scrive padre Palma, cui la buona coscienza di essere del tutto innocente rispetto alle accuse che gli vengono mosse non gli impedisce di sentirsi crollare il mondo addosso. Anche perché i calunniatori portano la questione all’attenzione della Congregazione vaticana per i Religiosi e poi addirittura davanti al Sant’Uffizio, che il 23 ottobre 1932 convoca padre Palma, aprendo di fatto un regolare processo contro di lui.
«Dopo avere dato tutte le mie energie spirituali, morali e fisiche alle magnifiche Istituzioni del Canonico Di Francia, mi sono visto, all’età di 60 anni, fatto bersaglio di una indegna congiura per ragione di gelosia e a causa dello spirito di intransigenza con cui volli attuare il programma e i criteri direttivi che il Fondatore impresse alle sue Opere», scrive amareggiato. A questo punto i calunniatori, accorgendosi forse di essersi spinti troppo oltre, ritrattano tutte le loro accuse, ma ormai è tardi.
Dopo un processo sommariamente svolto a senso unico anche se dura un anno, il Sant’Uffizio emette la sentenza: immediata estromissione di padre Palma dalla Congregazione, sospensione dall’amministrazione dei sacramenti e segregazione presso la Scala Santa di Roma, nel convento dei Padri Passionisti.
«Offro tutto per il maggior bene della Congregazione dei Rogazionisti e delle Suore del Divino Zelo», scrive con ammirevole forza d’animo, anche se è diventato irriconoscibile, soprattutto nel fisico, tanto è provato dalla situazione di cui è vittima. «Non ti affliggere per me. – scrive alla sorella Giacinta - Iddio non abbandona mai nessuno di quelli che confidano in Lui. Ti posso assicurare che Nostro Signore se da una parte mi ha messo alla prova, dall’altra mi da ogni giorno delle grazie proprio straordinarie…il Signore proprio giorno per giorno provvede per me»: è il suo tentativo di trovare conforto e sostegno nella fede, nonostante il suo fisico sembra volersi rifiutare di reagire e di sopportare il peso dell’ingiustizia che deve portare.
I Passionisti si rendono conto della perla, pur se infangata, che è stata loro affidata ed altrettanto chi cerca in lui conforto e consiglio che egli, anche se sospeso “a divinis”, dispensa con generosità a chi ha bisogno di aiuto, respingendo come tentazione l’invito a lasciare Roma e tornare al paese: accetta le umiliazioni e le penitenze inflittegli e spera di trovar giustizia, perché, dice, «a nostro Signore tutto è facile. Egli in un momento cambia ogni cosa. Non abbiate paura: bisogna lasciar fare a Lui solo».
Pio XI in persona si attiva per concedergli almeno di poter riprendere a celebrare Messa, come primo passo verso la riabilitazione completa: un desiderio che si realizza solo il 6 agosto 1935, nella festa della Trasfigurazione. Per padre Palma è un brevissimo istante di Tabor dopo gli anni di Calvario, perché neanche un mese dopo, il 2 settembre, il suo cuore cede all’improvviso ed è raccolto esanime davanti alla sua cella. Lo stesso giorno arriva dal Sant’Ufficio l’attestato con cui si riconosce la sua innocenza, ma è un documento che possono soltanto posare sulla sua salma.
«Chi visse tutta la sua vita per l’assistenza degli altri non trovò assistenza per sé; chi procurò agi e cure per migliaia di orfani non trovò agi e cure per se; chi predilesse la carità, la virtù, la giustizia, non trovò carità, virtù, giustizia per se né in vita, né in morte», scrive quel giorno il venerabile P. Ignazio Beschin OFM, suo confessore. 
Dopo 80 anni finisce anche la “damnatio memoriae” di padre Pantaleone Palma. Il Vescovo Vescovo di Oria, i confratelli, le consorelle e tutti coloro che lo considerano santo, chiedono che si inizi il processo di beatificazione: il minimo che potessero fare. La Postulazione generale dei Rogazionisti sta raccogliendo la documentazione per ricostruire la biografia di Padre Palma ed avere il nulla osta del Santo Uffizio per avviare la causa di beatificazione.

Autore: Gianpiero Pettit

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