Rai-Radiouno (Domenica 27 luglio, ore 11,50)
La preoccupazione espressa dal Papa per le migliaia di cristiani iracheni, costretti dall’autoproclamato califfato dell’Isis a fuggire da Mosul, trova riscontro nell’opera dei confratelli rogazionisti impegnati tra i profughi di Karakosh. Padre Vito Magno, domenica scorsa su Rai-Radiouno, prima dell’Angelus del Papa, ha intervistato il superiore della comunità, Padre Jalal Yako.
Padre Jalal, dove ti trovi in questo momento?
A Karakosh, a quasi trenta chilometri da Mosul, nel nord dell'Iraq.
Cioè a ridosso dell'autoproclamato califfato Yadista!
Esattamente, al confine istituito dal Kurdistan per impedire all’esercito islamico di entrare nella piana di Ninive.
A che distanza da voi si trovano i miliziani islamici?
Si stanno avvicinando dopo aver preso il monastero più importante, Mar Behnam, precisamente ad una decina di chilometri da noi.
Da dove provengono i rifugiati che state aiutando?
Per la maggior parte da Mosul. Sono più di centocinquanta famiglie in parte dislocate negli appartamenti disabitati di Karakosh, e in parte in vari nuclei familiari. Siamo andati a trovarli con i giovani che affiancano le nostre attività. Ci hanno raccontato il loro dramma, come sono stati cacciati via lasciandoli quasi nudi. Sono andati a bussare alla loro porta all’una di notte, hanno marchiato le loro case con la lettera "N" (Nazareni) per discriminarli. Una ragazza li ha rimproverati senza paura, l'hanno presa e messa a terra per decapitarla, ma deve esser successo qualcosa perchè è riuscita a fuggire.
Oltre alla Chiesa, chi pensa a questi profughi?
Ci sono organizzazioni locali dello Stato Iracheno. Grazie a Dio non manca da mangiare, anche se questa gente ha perso tutto; fatiche di anni per vivere degnamente! Ma sono rimasti fedeli alla loro fede e non hanno avuto paura di dire "Noi restiamo cristiani, anche se ci uccidete."
Quali le loro necessità primarie per le quali chiedete aiuto?
Per l'acqua, per la corrente e, prima di tutto, per la tranquillità. La gente è totalmente spaventata e spaesata, non sa cosa fare. Non c'è lo Stato, non c'è l'esercito e, non sappiamo cosa possa accadere domani.
A Karakosh riuscite a svolgere anche attività pastorali?
Sì. Per fortuna siamo riusciti a ricavare una sala per circa centocinquanta persone; l’abbiamo sistemata con i ragazzi ed è divenuta a tutti gli effetti una chiesa. Qui celebriamo la messa due volte a settimana; abbiamo festeggiato il mese di Maggio, il Sacro Cuore, l'incontro con le famiglie, e ogni giorno ci occupiamo del doposcuola per i ragazzi.
Che altro significa per voi vivere in mezzo a persone costrette ad abbandonare la loro casa, la loro terra?
Vivere nella loro condizione. Vivere la sete, la mancanza della corrente, la fatica, il caldo; insomma a caricarci delle loro sofferenze!
Quando due anni fa siete giunti a Karakosh quante persone conteneva il campo profughi?
Circa 1800. Tanti sono partiti per l’estero, dopo aver venduto tutto quello che avevano. Ma ci sono altri che hanno preso il loro posto, come le famiglie che sono rimaste senza niente.
Oggi quanti sono?
Il numero oscilla tra i milleseicento e i milleottocento.
Padre Jalal, da missionario a Karakosh, c'è un invito che si sente di fare?
Che tutti coloro che hanno una coscienza possano denunciare questi gravi delitti contro l'umanità. Non bisogna stare in silenzio. Si deve pregare, ma anche, attraverso le Organizzazioni Mondiali, denunciare il genocidio che i fanatici musulmani stanno compiendo.
FOTO ALLEGATE
1. Padre Jalal con i confratelli della comunità irachena insieme al vescovo di Mosul, Mons.Yohanna Petros Mouche
2. Profughi di Kalakosh